Einaudi *Super ET* (2005), 384 pagine, euro 10,50
Se si dovesse provare a definire questo poderoso romanzo della scrittrice ungherese, non si troverebbe concetto migliore di quello già espresso da critici e lettori: “favola nera”.
Il primo capitolo potrebbe iniziare con il classico “C’era una volta” e continuare con una favola che ha l’atmosfera dei momenti più neri delle fiabe e delle favole (Cappuccetto Rosso mangiata dal lupo, Biancaneve sola nel bosco, Hansel e Gretel nella gabbia alla mercè della nonna).
È tempo di guerra in Ungheria e la città di K. – città immaginaria che si prova ad associare con le città dell’Europa dell’Est – è martoriata dalle vicissitudini che non vengono esplicitamente descritte ma di cui se ne percepisce la gravità, l’odore di morte e di distruzione.
Due gemelli, Lucas e Claus, vengono portati fuori città, e vanno ad abitare con la nonna; donna anziana, cinica, priva di sentimenti, somigliante alla classica strega delle fiabe. I bambini si aiutano l’un l’altro a sopportare le difficoltà, la fame, il freddo e vanno avanti di espedienti, piccole furbate, amicizie particolari.
Si sottopongono a “giochi masochisti”, si impongono di non mangiare, di stare all’aperto nudi, tutto per istruire il corpo alla sopportazione fisica e psicologica delle avversità.
Sul loro cammino si succedono eventi, incontri importanti con personaggi estremi, da piccole mendicanti a importanti generali e tutto viene pedissequamente annotato su una serie di quaderni che costituiranno le memorie dei ragazzi e il fulcro dei primi due capitoli della trilogia.
Il secondo capitolo rappresenta un punto di passaggio fra la “favola” del primo capitolo e la “concretezza” del terzo capitolo. I ragazzi si misurano con il loro stesso essere di fronte alle persone che incontrano e si ritrovano capaci di grande generosità come di un assoluto cinismo.
Il terzo capitolo non può essere raccontato, non si immagina se non si legge. Aperto da sempre a interpretazioni di ogni sorta, è forse la parte meno “nera” ma più oscura di tutto il romanzo; parte in cui la realtà si mescola e si trasfigura con il ricordo, in cui i bambini sono ormai adulti, in cui il lettore scava insieme ai protagonisti alla ricerca di un senso.
I tre capitoli sono molto diversi come stile, come atmosfera delle storie: dalla favola asciutta e veloce del primo capitolo, a una prosa fluida e ampia che segna il passaggio dalle fantasie dei bambini alla realtà di adulti che si confrontano con il passato, i ricordi e un presente ostico e difficile con cui si chiude la storia.
Tre parti distinte, che nascono separate in tre libri, scritti da Agota Kristof in tre momenti diversi nella sua seconda lingua, il francese, più “letteraria” e diffusa dell’ungherese, che Agota impara in Svizzera, dove si trasferisce con marito e figlia nel 1956 in seguito all’intervento dell’Armata Rossa per sedare la rivolta antisovietica.
Dell’Ungheria che lei lascia a malincuore rimane un segno tangibilissimo nella prima parte della Trilogia, quella che in origine era “Le grand cahier” (Il grande quaderno). Agota lavorava in fabbrica e teneva accanto a sé un foglio su cui scriveva i suoi versi, i suoi appunti, cullata e concentrata dal ritmo incalzante delle macchine, che ritroviamo nella prima parte del romanzo.
In questo “quaderno” c’è anche la trasposizione, in Claus e Lucas, di lei e del fratello, legatissimi e complici come i due gemelli del romanzo, che cresceranno, diventeranno adulti e si separeranno per poi provare a ritrovarsi (nella realtà? nel ricordo? nella fantasia?) nelle altre due parti, “La preuve” (La prova) e “Le troisième mensogne” (La terza menzogna), che con “il quaderno” confluiscono nella “Trilogia della città di K.”
Letto a Tulum, in ottobre, mentre pioggia incessante e vento forte battevano sui vetri della nostra “capanna”.