Libri che capitano: Prima o poi di Luca Piretta

lucapirettaLuca Piretta, Prima o poi, Aljon editrice (2013), 184 pagine, 14 euro

Ci sono libri che scegli, sbocconcelli in libreria, cerchi, compri. E ci sono libri che ti capitano per caso, come Prima o poi di Luca Piretta.

Conoscevo Luca come nutrizionista, medico, persona molto simpatica che frequentava Art Studio Café, il locale dove lavoro e dove il 27 giugno sarà ospite con il suo libro. Non lo avevo mai conosciuto nella sua veste di scrittore.
Lo so che chi ha letto fin qui è scettico… “Cos’ha a che vedere un medico con un romanzo d’amore e mistero?” vi starete chiedendo. Lecita domanda. Basterebbe però sentirgli raccontare, magari seduti a un tavolo con un cous cous (sano e con poco olio), del suo lavoro, dei suoi viaggi e dell’impulso che lo ha spinto a scrivere per intuire che potrebbe essere un bravo narratore.

Chi come me lavora anche con i libri, oltre che divorarli per puro piacere, non riesce a leggere una storia senza pensare allo stile, alla struttura, ai personaggi, allo sviluppo tecnico del romanzo.
Nel caso di Prima o poi la storia prende talmente il sopravvento sullo stile (comunque interessante, pulito e con tante figure, immagini, suggestioni su cui ti fermi e vai indietro a rileggere) che te la godi proprio. Continua a leggere

Giancarlo De Cataldo – Il padre e lo straniero

Einaudi *Einaudi. Stile libero big* (2010), 141 pagine, 14 euro

In una Roma multietnica, con il mercato di Piazza Vittorio, il bagno turco di Mustafa e il night club di Michael a fare da set a scene molto ben costruite, si muovono Diego e Walid.

In breve, nasce un’amicizia senza connotati – Diego non conosce il lavoro, lo status sociale, il passato di Walid e viceversa. L’unica cosa certa è che i loro figli – Giacomino e Yousuf – sono il trait d’union principale fra i due e il motore di tutta la storia. È in un istituto per bambini affetti da gravi handicap, infatti, che i due si incontrano, una volta a settimana, e iniziano un cammino insieme che parte dalla condivisione di un dolore e si punteggia in momenti di un’amicizia profonda, in cui si è disposti anche a rischiare la vita; una fratellanza, di dolori, di intenti, che accompagna e protegge.

La storia è semplice: un uomo comune si trova coinvolto, per un incontro fortuito, in un giallo al di fuori della sua stessa comprensione. Circondato da personaggi che rivelano il loro vero volto solo in un secondo momento, si trova da solo ad affrontare un mondo che non conosce e non gli appartiene – per lui semplice impiegato al Ministero di Grazia e Giustizia con una famiglia e una vita “normale”- una Roma “sotterranea”, fatta di ambiguità e malaffare.

Ciò che è sorprendente di questo romanzo, forse più che la storia, è il modo stesso di affrontarla e tutto ciò che rimane sullo sfondo è un elemento notevole da cui partire per scoprire un altro aspetto del giallo.

“Il padre e lo straniero” è un romanzo sensibile, una dichiarazione di amicizia contro ogni pregiudizio e giudizio, una presa di coscienza e la consapevolezza di un padre, insieme alla sua lacerazione interiore, costretto ad affrontare un handicap grave nella creatura che ama di più. Ed è nel momento in cui Diego trova se stesso e suo figlio Giacomino come riflessi in uno specchio in Walid e Yousuf che la ferita inizia a guarire, a rimarginarsi nella ricerca di un rapporto nuovo e diverso che accetta e va avanti, impara e costruisce.

Dolcissime immagini rimangono impresse: i padri che soffiano sul viso dei loro bambini all’uscita dall’istituto per capire da un cenno la risposta alla domanda di rito “Com’è andata?”, come il “Che hai fatto a scuola oggi?” di tante quotidianità; il dialogo cercato in piccolissimi segnali; la rabbia che assale in un impeto, così reale e così lontano da ipocrisie perbeniste.

Ecco quindi che mentre si legge si abbandona spesso il tracciato che porta alla soluzione dell’enigma e ci si perde fra i sentieri di una storia che coinvolge per l’onestà e l’apertura di cuore e di mente con cui è raccontata e condivisa.
Un romanzo dove finalmente i buoni non sono completamente buoni e i “cattivi” non hanno cucito addosso un abito su misura, ma sono solo uomini che si rapportano con altri uomini e come tali capaci di azioni deplorevoli come grandi atti d’amore e di amicizia. Soprattutto quando non vengono giudicati per lo stereotipo che rappresentano, ma visti con il candore di chi nell’altro cerca una risorsa di crescita, un aiuto e non vede necessariamente e a priori una minaccia.

Mi capita di vedere spesso Giancarlo De Cataldo; è una persona gentile. E un romanzo come questo non poteva essere scritto che da una persona gentile.

Yari Selvetella – Uccidere ancora

Newton Compton *Nuova narrativa Newton* (2009), 233 pagine, euro 12,90
selvetella_uccidereGianni Guido è libero, per il giudice ha finito di scontare la sua pena. Pena per aver massacrato, insieme con altri due mostri, ragazzini spocchiosi e cinici della Roma “bene” degli anni Settanta, massacrato a morte una ragazza e ridotto in fin di vita un’altra.
Sono loro – Gianni Guido, Angelo Izzo e Andrea Ghira – i protagonisti di uno dei fatti di cronaca più tristi della storia, il massacro del Circeo del 1975.
Guido, Izzo e Ghira sono anche gli antagonisti, uniti idealmente in un unico personaggio che racchiude la storia e le caratteristiche di tutti e tre, di Antonio Coletti, giovane cronista in cerca di scoop, protagonista del nuovo romanzo di Yari Selvetella.

Selvetella ci aveva abituato a un modo di trattare i fatti di cronaca avvolgente e interessante. Soprattutto in “Roma criminale”, scritto con Cristiano Armati e in “Banditi, criminali e fuorilegge di Roma” partiva dai fatti di cronaca nera (dai duelli di strada agli omicidi) per descrivere angoli bui della capitale e della società dell’ultimo secolo. La narrazione precisa, quasi giornalistica, frutto di studio e ricerca di documenti, veniva stemperata da una capacità descrittiva di luoghi, ambienti, persone che affascinano e rimangono impressi nella memoria.

In “Uccidere ancora” la cronaca è un fondale teatrale davanti a cui Selvetella fa muovere i suoi personaggi e ne governa le storie. Antonio cerca lo scoop che darà una svolta alla sua carriera; gli viene offerta un’opportunità rischiosa che non può rifiutare: infiltrarsi in una comunità e scovare il pericoloso latitante che forse si nasconde fra gli internati. Un uomo che ha ucciso, è sparito, si è nascosto per anni e adesso è capace di uccidere ancora (Ghira è stato latitante, Izzo è stato in galera e ha ucciso di nuovo, Guido ha appena finito di scontare la sua pena).
Fra piccole storie quotidiane e personaggi che ruotano attorno ad Antonio, testimoni di un sistema particolare di equilibri fra “guardie e ladri”,
un micromondo dove il confine è così sottile da creare ambiguità, confondere le certezze, indurre il giovane giornalista (e con lui i lettori) a proseguire in una ricerca continua di segni, indizi, anche i più piccoli. E questo rende avvincente il romanzo, nella curata edizione dai tagli di pagina rossi, della Newton Compton. Più che una soluzione di un giallo, appassiona seguirne lo sviluppo, la trama che Selvetella tesse magistralmente, in cui si muove sicuro e tranquillo, anche senza la “rete di protezione” della cronaca.

Aspettiamo il nuovo romanzo di Yari Selvetella, magari ne ha un altro pronto nel cassetto…

Brendan O’Carroll – Agnes Browne mamma

Neri Pozza *I narratori delle tavole* (2008), 176 pagine, euro 14,50

AgnesBrownMammaAgnes Browne mamma. Mamma, vedova, amica, lavoratrice.
Mamma di 7 “marmocchi” (che hanno dato il titolo al secondo libro della saga). Vedova di Rosso, che se ne va lasciandola nei guai. Amica inseparabile di Marion, con cui trascorre le sue lunghe giornate che iniziano alle 5 del mattino che iniziano con un grido lanciato a Dio dalla porta di una Chiesa. Lavoratrice, in un banco di frutta in un mercato della periferia di Dublino.
Agnes non è la mamma come si immagina una “mamma”, ma è la mamma che molti ragazzi e ragazze sognerebbero di aver avuto. Simpatica, sfacciata, corpulenta, a cui capita di ubriacarsi di birra nei pub e vomitare per strada nei momenti meno consoni.
Orgogliosa del figlio maggiore, in realtà troppo piccolo per lavorare, ma che alla morte del padre si rimbocca le maniche per dare una mano alla famiglia. Non ha paura davanti alla fatica, alla sofferenza, a cui cerca di reagire sempre con un sorriso e una buona dose di ironia.

Tutto il romanzo, nonostante i temi trattati a volte facciano sparire il sorriso dalle labbra di chi legge, è giocato sulla linea della leggerezza, dell’ironia, della simpatia; capita tutt’al più di scorgere una vena malinconica che accompagna Agnes nella perdita, nella scoperta, nella sua nuova vita da giovane vedova con 7 figli da tirare su, sani e allegri come lei.

Tutta la saga di Agnes Browne: Agnes Browne mamma, I marmocchi di Agnes, Agnes Browne nonna e il “prequel” Agnes Browne ragazza.

Agota Kristof – Trilogia della città di K.

Einaudi *Super ET* (2005), 384 pagine, euro 10,50

kristof_trilogia3Se si dovesse provare a definire questo poderoso romanzo della scrittrice ungherese, non si troverebbe concetto migliore di quello già espresso da critici e lettori: “favola nera”.
Il primo capitolo potrebbe iniziare con il classico “C’era una volta” e continuare con una favola che ha l’atmosfera dei momenti più neri delle fiabe e delle favole (Cappuccetto Rosso mangiata dal lupo, Biancaneve sola nel bosco, Hansel e Gretel nella gabbia alla mercè della nonna).

È tempo di guerra in Ungheria e la città di K. – città immaginaria che si prova ad associare con le città dell’Europa dell’Est – è martoriata dalle vicissitudini che non vengono esplicitamente descritte ma di cui se ne percepisce la gravità, l’odore di morte e di distruzione.
Due gemelli, Lucas e Claus, vengono portati fuori città, e vanno ad abitare con la nonna; donna anziana, cinica, priva di sentimenti, somigliante alla classica strega delle fiabe. I bambini si aiutano l’un l’altro a sopportare le difficoltà, la fame, il freddo e vanno avanti di espedienti, piccole furbate, amicizie particolari.
Si sottopongono a “giochi masochisti”, si impongono di non mangiare, di stare all’aperto nudi, tutto per istruire il corpo alla sopportazione fisica e psicologica delle avversità.

Sul loro cammino si succedono eventi, incontri importanti con personaggi estremi, da piccole mendicanti a importanti generali e tutto viene pedissequamente annotato su una serie di quaderni che costituiranno le memorie dei ragazzi e il fulcro dei primi due capitoli della trilogia.

Il secondo capitolo rappresenta un punto di passaggio fra la “favola” del primo capitolo e la “concretezza” del terzo capitolo. I ragazzi si misurano con il loro stesso essere di fronte alle persone che incontrano e si ritrovano capaci di grande generosità come di un assoluto cinismo.

Il terzo capitolo non può essere raccontato, non si immagina se non si legge. Aperto da sempre a interpretazioni di ogni sorta, è forse la parte meno “nera” ma più oscura di tutto il romanzo; parte in cui la realtà si mescola e si trasfigura con il ricordo, in cui i bambini sono ormai adulti, in cui il lettore scava insieme ai protagonisti alla ricerca di un senso.

I tre capitoli sono molto diversi come stile, come atmosfera delle storie: dalla favola asciutta e veloce del primo capitolo, a una prosa fluida e ampia che segna il passaggio dalle fantasie dei bambini alla realtà di adulti che si confrontano con il passato, i ricordi e un presente ostico e difficile con cui si chiude la storia.
Tre parti distinte, che nascono separate in tre libri, scritti da Agota Kristof in tre momenti diversi nella sua seconda lingua, il francese, più “letteraria” e diffusa dell’ungherese, che Agota impara in Svizzera, dove si trasferisce con marito e figlia nel 1956 in seguito all’intervento dell’Armata Rossa per sedare la rivolta antisovietica.

Dell’Ungheria che lei lascia a malincuore rimane un segno tangibilissimo nella prima parte della Trilogia, quella che in origine era “Le grand cahier” (Il grande quaderno). Agota lavorava in fabbrica e teneva accanto a sé un foglio su cui scriveva i suoi versi, i suoi appunti, cullata e concentrata dal ritmo incalzante delle macchine, che ritroviamo nella prima parte del romanzo.
In questo “quaderno” c’è anche la trasposizione, in Claus e Lucas, di lei e del fratello, legatissimi e complici come i due gemelli del romanzo, che cresceranno, diventeranno adulti e si separeranno per poi provare a ritrovarsi (nella realtà? nel ricordo? nella fantasia?) nelle altre due parti, “La preuve” (La prova) e “Le troisième mensogne” (La terza menzogna), che con “il quaderno” confluiscono nella “Trilogia della città di K.”

Letto a Tulum, in ottobre, mentre pioggia incessante e vento forte battevano sui vetri della nostra “capanna”.