Senza di Lanfranco Caminiti (minimum fax, 2021)

“Se non raccontiamo l’inverno, non arriverà mai primavera”. Parto da qui, da questo post che Lanfranco Caminiti ha lasciato in bacheca il 1 gennaio. Dicono che un lutto vada “elaborato”. Credo invece che vada attraversato, e questo piccolo e prezioso romanzo ne è la dimostrazione nero su bianco. Attraversare un lutto significa prendere coscienza del “fatto” che la persona amata non ci sia più, che non si possa più parlare con lei (con Paola, nel suo caso), abbracciarla, programmare il futuro, anche quello più prossimo e in apparenza banale, come andare a fare la spesa insieme. Quindi, è utile ripercorrere la strada prima del lutto, senza dimenticare che “quel” cammino è finito e si deve scegliere un altro sentiero. Impervio, accidentato, ma necessario.

Mia nonna diceva sempre: “Amaru a ccu mori? Amaru a ccu resta!”. Chi resta deve infatti fare i conti con il vuoto, che si riempie solo di mancanza; un puzzle di tutti i momenti passati insieme, scampoli di vita che si cercano di mettere da parte, e a volte si tracciano, nero su bianco, come fossero puntini da unire per rileggere il passato e cercare di immaginare un futuro anche “senza”. Ed è quello che fa Lanfranco Caminiti in questo romanzo molto atteso: traccia una mappa della mancanza e racconta la trasformazione di un’unione, un matrimonio, in vedovanza.

Il romanzo inizia con uno spartiacque, tangibile, concreto, fra la vita “con” e la vita “senza”:

L’avrebbero vestita le sue nipoti. Io diedi loro l’abito che aveva comprato da poco e una camicia di percalle. L’abito era rosa antico e smanicato. E Paola non girava mai a braccia nude, le sembrava poco elegante.

Il punto da cui partire per disegnare quella vita condivisa, tanti anni, tante esperienze, e porsi domande a cui non necessariamente dare una risposta. Questo è un romanzo che raccoglie, in una trama non prettamente diaristica come sembra, il percorso di presa di coscienza con tutti gli ostacoli (la fede, il dubbio, il dolore, la rabbia, la rassegnazione e l’accettazione) inevitabili, posizionati in maniera irregolare sul cammino.

È un romanzo lirico, evocativo, a tratti:

È morta, morta. Morta, è una parola orribile. Morire, non lo è. Suona come spegnersi, estinguersi, tramontare, morire ti rende alla natura del mondo, alle stelle che si spengono, agli uccelli piumati dal lungo becco sottile e verde che si estinguono, ai soli che tramontano al largo delle porte di Orione. Morire, sembra comunque restituirti alla vitalità del tutto)

ma per la gran parte è un romanzo concreto, che non nasconde nulla al lettore, non gli mette una mano sulla spalla dicendo “vedrai che andrà meglio, lei è felice adesso” e tutte quelle inutili false consolazioni:

La vita continua – quante volte me lo sono sentito dire. Mi è capitato di dirlo anch’io –  e ha un suono diverso. C’è un che di spietato. E invece, la vita finisce. è la vita che finisce. è la morte che continua, che è per sempre. Questo fa la morte alla vita – imprime a fuoco il marchio del dolore).

La morte diventa occasione per raccontare una storia, appassionata e appassionante; quella di due persone che hanno affrontato la vita non mentendo mai a loro stessi, in un periodo storico particolare (gli Anni Sessanta, Settanta), in cui i compagni, gli amici, erano la famiglia allargata, la comunità con cui magari si divideva anche casa. Le discussioni, le tappe importanti, gli scivoloni, le scelte vengono condivisi con i lettori, che diventano testimoni di un matrimonio felice, e imperfetto, mantenuto in equilibrio dal rispetto e dalla stima reciproci, oltre che dall’amore. 

Senza ci lascia con domande, profonde, a cui prima o poi, tutti, cerchiamo di dare una risposta:  

Non ho alcuna idea di dove tu possa essere finita. Di dove si finisce. Forse è uno stato d’animo, più che un luogo. Forse è un frammento di tempo della propria vita, più che un luogo. Perché abbiamo costruito un immaginario oltrevita in cui tutti viviamo in uno stesso ambiente e in una stessa forma? A ognuno dovrebbe essere dato il suo paradiso: il tuo – ne sono sicuro – è una spiaggia in una giornata di splendido sole…Dov’è la linea tra la vita e la morte? Ciò che è bianco, luce, diventa d’improvviso tutto nero, oscurità? Quando era morta? Respirava quel rantolo, era ancora viva? Era ancora viva, la notte in cui morì? Quando ha capito che stava per morire, che sarebbe morta? 

Non rimane l’amaro in bocca, come si potrebbe pensare visto il tema, ma un desiderio di vivere finché ci è concesso, con onestà e rispetto dell’altro, in ogni situazione, anche la più dolorosa e che sembra strapparci perfino la dignità. Ci si mette in discussione, e si attraversa il dolore, con una guida delicata e generosa.

Questo post è stato pubblicato su www.lapoesiaelospirito.it

Nuvole zero, felicità ventitré

Stefano Tofani, Nuvole zero, felicità ventitré,
Rizzoli ragazzi, 2021
288 pagine
(edizione cartonata con sovraccoperta e cianometro)

Quante volte guardiamo veramente il cielo? Quante volte guardiamo veramente le cose? Stefano Tofani ci dà, in ogni suo libro, un paio di occhiali speciali: gli occhi dei bambini. I più piccoli, timidi, che si riescono a entusiasmarsi, puntano un obiettivo e non distolgono l’attenzione finché non lo hanno raggiunto, anche quando attorno a loro (a casa, soprattutto), il mondo sembra solo andare avanti controvento, e a fatica.

Quante volte ci è capitato di trovare qualcosa (una “cosa” o un sentimento, una sensazione) e passare oltre? Buttarla via, metterla da parte, dimenticarla? Non sappiamo davvero cosa ci siamo persi, a cosa ci avrebbe potuto portare seguirne la traccia, osservarla con tutto il cuore, l’anima, l’impegno, che solo un bambino ci mette. Ernesto, il nostro piccolo eroe dei “Sette abbracci” è tornato, per prestarci i suoi “quattro occhi” e portarci con lui a vivere un’avventura straordinaria. E insegnarci che il cielo, come tutte le cose, può avere infinite gradazioni di blu.

In foto, Ricky e Nico con il cianometro che hanno trovato fra le pagine del libro, oggetto magico e sconosciuto anche agli adulti. Provatelo, e guardate, veramente, le “gradazioni” di ogni cosa.

Tommaso e l’algebra del destino di Enrico Macioci

Enrico Macioci, Tommaso e l’algebra del destino, SEM, 200 pagine, 16 euro

Quante persone incontriamo nella vita, anche solo per una manciata di minuti? A volte ne incrociamo solo lo sguardo, altre scambiamo qualche battuta, altre ancora cambiano in maniera tangibile il corso del nostro destino. In questo libro, invece, sono proprio le prime che cambiano, radicalmente, il corso del destino di una famiglia intera, madre, padre e figlio di quasi sei anni.

Si dice che la lettura sia un’esperienza che nutre lo spirito, rinfranca l’anima e blablabla. La lettura, alcune volte (non sempre) può essere una forte, fortissima esperienza fisica. Mi sono trovata letteralmente in apnea leggendo la cronaca crudele delle ventiquattro ore vissute da Tommaso e da tutti i personaggi che in qualche modo sono stati coinvolti nella sua piccola odissea. Ho serrato le dita attorno alle pagine, fino a farle diventare bianche, mentre guardavo (perché lo vedi proprio, mica lo immagini) quel piccolino legato al suo seggiolino, per ore, sotto il sole cocente della vigilia di Ferragosto (e non dico altro, questa è una informazione che si apprende leggendo la quarta di copertina o qualunque post in merito). Non ho dormito per tante notti, e confesso, è il primo libro di cui sono andata a cercare il finale quando ero circa a metà. E questo non ha “rovinato” la lettura.

Non è un giallo, è un pezzo pulsante di vita, dove quelle che noi chiamiamo “coincidenze” e che in genere identifichiamo con incontri, vicende, fatti positivi, non sono altro che formule matematiche, lo spazio che si intreccia con il tempo, le occasioni, le micro scelte che ogni giorno facciamo, più o meno consapevolmente, o che vengono fatte da altri, e ci sfiorano in qualche modo.

Eccezionale anche la scelta del narratore esterno, portato in questo libro a un livello estremo, spinto fino al limite; “vede” e racconta tutto, ma il suo sguardo è puntato principalmente sul piccolo Tommaso, capace, in una situazione estrema come quella che sta vivendo, di pensieri elaborati – anche troppo, forse, per un bimbo così piccolo – che gli risuonano nelle orecchie come formulati dal nonno saggio e dal compagnetto di classe più furbo. Nasce un dialogo fra Tommaso, Valerio Frasca (identificato sempre con nome e cognome, come succede con i primi compagni di scuola) e il nonno, un dialogo fra Tommaso e la sua coscienza, le sue paure. Valerio gli dice in maniera anche crudele che il papà è andato a spassarsela lasciandolo in macchina, gli racconta le dinamiche di un divorzio. Chissà in che occasione Tommaso avrà appreso (e riprodotto poi) quel termine, chissà cosa significa per un bambino che si sente tradito dal suo affetto più caro, chissà cosa passa per la testa dei bambini quando sono in difficoltà e quasi muoiono di paura. Macioci cerca di rispondere a tutte queste domande, suscitandone nel lettore tante altre, che non sempre troveranno risposta, è questo – anche – il bello del romanzo.

Potrebbe essere un romanzo sul libero arbitrio, che non è solo una questione personale, come ci hanno sempre insegnato, ma coinvolge tante altre persone, anche quelle che in genere non ruotano attorno alla nostra orbita quotidiana. Potrebbe anche essere un libro sulle coppie di oggi (i genitori di Tommaso, quelli di Valerio Frasca, una donna che passa sbraitando al telefono, delusa da una relazione malata), sempre meno inclini ad accettare i compromessi e alla ricerca di una felicità che è sempre altrove. L’infanzia ha un ruolo fondamentale in questa storia, non solo perché il protagonista è un bambino; ci sono altri bambini, con il loro mondo interiore sempre più adulto, che a sei anni hanno già sulla pelle le cicatrici lasciate da ciò che gli adulti propongono loro, senza filtri, a volte necessari, o auspicabili.

Nei tanti post che ho letto sui social in cui veniva consigliata la lettura di questo romanzo, Macioci viene affiancato a Stephen King (scrittore che, ho scoperto poi, lui ama e studia, e amo molto anche io). Ecco, questo libro mi ha ricordato Il gioco di Gerald, il suo protagonista rimasto ammanettato a un letto per un tragico scherzo del destino, che cerca in tutti i modi di liberarsi. C’è una tensione di fondo sempre alta, e i personaggi, messi di fronte a una crisi senza precedenti, a una paura che pensano di non riuscire ad affrontare, crescono, cambiano, nello spazio di un romanzo, con un narratore che non smette mai di dialogare con il lettore, in uno scambio che sembra reciproco.

Qui l’intervista di Giovanni Agnoloni a Enrico Macioci per La poesia e lo spirito.

Sette abbracci e tieni il resto di Stefano Tofani (Rizzoli)

Non ce la faccio a infilarlo fra gli altri, non solo perché copertina e titolo mi trasmettono calore e mi ricordano Ernesto, e la sua avventura chiusa in questo meraviglioso libro. Deve avere un posto d’onore perché è il primo libro per ragazzi (anche un po’ cresciuti come me) di Stefano Tofani e merita tutto l’amore possibile.

Come quello che lui dà ai suoi personaggi, dal più importante al più piccolino. Tanti scrittori scivolano sulla scelta di scrivere in prima persona, soprattutto se devono entrare nelle scarpe di una persona che ha 30, 40 anni meno di loro. Stefano non solo entra perfettamente nella testa e nel cuore di un ragazzino, ma con le scarpe di Ernesto compie un viaggio nella vita di tanti ragazzi di oggi, che affrontano a volte questioni più grandi di una spanna rispetto a loro.

Nemmeno Mark Haddon nel suo bestseller era riuscito a rendere così bene l’idea di un bambino “particolare” messo davanti a un giallo da risolvere, andare in profondità nelle relazioni con gli altri personaggi, calandolo nella storia quotidiana; forse questo libro ricorda un po’ di più i film di Michel Gondry, in cui i personaggi affrontano la parte più dura della realtà con la loro anima bambina, pulita, che non sempre significa ingenua e che tutti dovremmo tenere sempre attiva.

Ho letto un libro e sono… arrabbiata (Fedeltà di Marco Missiroli)

Ho letto questo libro. E mi sono arrabbiata tantissimo. Avevo aspettative abbastanza alte: se n’è parlato tanto, e con tanto accanimento, sia in positivo che in negativo; il tema mi spaventava, in un certo senso (perché poteva toccare nervi scoperti); e infine: l’autore mi piace molto, ha scritto romanzi degni di nota, e conosce bene il mestiere. Ecco, pure troppo: un libro che ha grandi potenzialità, scritto sicuramente con maestria dal punto di vista dello stile, dall’incipit che fa entrare presto dentro la storia, alle immagini attraverso cui viene veicolato l’ambiente in cui i personaggi si muovono; nei dialoghi, per esempio, la descrizione della vita che scorre fuori dai personaggi coinvolti si fonde perfettamente, con un ritmo preciso e modulato, con le battute, suscitando una sensazione di immersione totale nel racconto.

E poi? Poi si sgonfia, procede come un compito in classe a tema definito, portato avanti, sembra, senza particolare entusiasmo e soprattutto non rispettando fino in fondo i personaggi presi in prestito per raccontare una vicenda piuttosto comune. Sembrano (quasi) tutti sagome di cartone che stanno poco più avanti rispetto a uno sfondo ben costruito, si muovono sulla scena, ma non si capisce spinti da cosa, che passato abbiano, che esigenze, che pulsioni. E per una storia che dovrebbe basarsi proprio sulle pulsioni (non solo sessuali), è da pazzi lasciare in superficie ciò che muove un personaggio dal profondo, e tenerlo in piedi come olio che galleggia in un bicchiere d’acqua.

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